Il verde di quartiere, sotto il profilo della cultura urbana, può essere considerato il prodotto di una lunga battaglia politica e sociale portata avanti nei decenni passati per migliorare le condizioni di vita nelle aree più densamente abitate delle città. Il verde, in questo senso, svolge un duplice ruolo ecologico e sociale, dunque essenziale anche se non adeguatamente riconosciuto.
Bisogna ammettere che le nostre città e i nostri quartieri hanno perso di qualità anche a causa dell'uso pervasivo dell'automobile e della colonizzazione impropria da parte di questa di moltissimi spazi pubblici.
E' dunque necessario ritornare a pensare agli spazi verdi che contraddistinguono i quartieri per dare loro una nuova identità e maggiore qualità formale, potenziando nel contempo le capacità che essi hanno di contrastare i disagi derivanti dai cambiamenti micro e macro climatici.
Le parole d'ordine sono dunque: rinaturare la città e rendere gli spazi verdi urbani sempre più accoglienti e vivibili.
La storia del verde di quartiere (o di standard) in Italia
Gli standard urbanistici, introdotti nella normativa italiana dal D. M. 1444/68, sono stati il risultato di un ampio dibattito che ruotava attorno ai metodi da utilizzare per regolamentare la quantità di aree da destinare a servizi nelle zone destinate all'ampliamento dei centri urbani. In particolare il decreto stabiliva in 18 metri quadrati la dotazione minima per abitante da riservare a spazi pubblici, attività collettive, verde pubblico e parcheggi.
Negli anni '60, la domanda di maggiore razionalità e di miglioramento in chiave principalmente funzionale, ma anche estetica, delle città, nonché i vari disastri causati dall'urbanizzazione selvaggia che hanno contraddistinto alcuni contesti urbani (tra tutti ricordiamo il caso di Agrigento), alimentarono il dibattito urbanistico italiano concentrato sulla ridefinizione di nuovi strumenti legislativi per innovare gli strumenti di gestione urbanistica elaborati durante il regime fascista (legge n. 1059 del 1942). In attesa di una riforma generale della normativa urbanistica, nel 1967 venne emanata la cosiddetta "legge ponte" (765/67) che aveva lo scopo di limitare le possibilità di nuova edificazioni nei comuni all'epoca ancora sprovvisti di strumenti urbanistici e stabilendo che tutti i piani dovessero prevedere la presenza di spazi per rispondere alle esigenze collettive: il verde e lo sport, le scuole, le attrezzature per la vita civile, la sanità, il commercio, il culto, i parchi urbani e i parcheggi. Per effetto della "legge ponte", quindi, le città si dotarono di piani regolatori in modo diffuso e poiché essa imponeva di fatto solo il rispetto di valori minimi di aree da vincolare, fu possibile adattare ad ogni singola realtà quegli "standard" che il legislatore aveva inteso come controllo minimo della progettazione urbanistica. La definizione dei rapporti "minimi inderogabili" per la qualità urbana, meglio conosciuti come "standard urbanistici", dopo il DI 1444/68 è però oggi considerata obsoleta per due principali motivi: la rigidità della definizione stessa di standard, considerato un parametro meramente quantitativo, e, di conseguenza la difficoltà della sua concreta applicazione al fine di ottenere quella qualità urbana che è il fine ultimo del progetto di città.
Negli anni '60, la domanda di maggiore razionalità e di miglioramento in chiave principalmente funzionale, ma anche estetica, delle città, nonché i vari disastri causati dall'urbanizzazione selvaggia che hanno contraddistinto alcuni contesti urbani (tra tutti ricordiamo il caso di Agrigento), alimentarono il dibattito urbanistico italiano concentrato sulla ridefinizione di nuovi strumenti legislativi per innovare gli strumenti di gestione urbanistica elaborati durante il regime fascista (legge n. 1059 del 1942). In attesa di una riforma generale della normativa urbanistica, nel 1967 venne emanata la cosiddetta "legge ponte" (765/67) che aveva lo scopo di limitare le possibilità di nuova edificazioni nei comuni all'epoca ancora sprovvisti di strumenti urbanistici e stabilendo che tutti i piani dovessero prevedere la presenza di spazi per rispondere alle esigenze collettive: il verde e lo sport, le scuole, le attrezzature per la vita civile, la sanità, il commercio, il culto, i parchi urbani e i parcheggi. Per effetto della "legge ponte", quindi, le città si dotarono di piani regolatori in modo diffuso e poiché essa imponeva di fatto solo il rispetto di valori minimi di aree da vincolare, fu possibile adattare ad ogni singola realtà quegli "standard" che il legislatore aveva inteso come controllo minimo della progettazione urbanistica. La definizione dei rapporti "minimi inderogabili" per la qualità urbana, meglio conosciuti come "standard urbanistici", dopo il DI 1444/68 è però oggi considerata obsoleta per due principali motivi: la rigidità della definizione stessa di standard, considerato un parametro meramente quantitativo, e, di conseguenza la difficoltà della sua concreta applicazione al fine di ottenere quella qualità urbana che è il fine ultimo del progetto di città.
Un'area che integri le residenze
Il verde di quartiere è la soddisfazione di un bisogno intrinseco agli abitanti di una determinata zona urbana ed è legato alla diversificazione per:
- età
- appartenenza a categorie socio-economiche
- qualità, dimensioni e condizioni degli alloggi
Le tipologie di verde di quartiere
Si tratta in genere di piccole aree verdi presenti in diversi punti del tessuto urbano. Gli spazi verdi di quartiere sono utilizzati prevalentemente dagli abitanti della zona, che utilizzano queste aree con funzione ricreativa, di svago e di incontro. I criteri di progettazione di questi spazi verdi, considerato l'utilizzo generalmente intensivo, a fronte di una modesta estensione, devono essere semplici: alberi, arbusti e zone a prato vanno ubicati in modo da alternare zone d'ombra a zone al sole; devono essere previste aree pavimentate attrezzate per il gioco e la sosta, anche per limitare un eccessivo utilizzo dei prati; le specie da utilizzare devono essere rustiche e non particolarmente vigorose, per consentire una manutenzione ridotta; le barriere architettoniche devono essere eliminate, per consentire il libero movimento anche ai portatori di handicap.